Tre confini da attraversare per entrare in un luogo
unico. Due milioni di persone tenute recluse sia fisicamente dai confini
terresti, aerei e marittimi (all’orizzonte del mare di Gaza si vede la Marina
militare israeliana) sia psicologicamente: perché in pochissimi possono entrare
nella Striscia di Gaza e approfondire il rapporto con la popolazione,
allacciare amicizie o collaborazioni. Il Gaza FREEstyle ha deciso di forzare il
blocco, e quest’anno la Carovana annuale- che ha avuto però uno stop nei due
anni di pandemia - era composta da 70 persone provenienti da tutta Italia, tra cui Rajaa, della Cub Trasporti di Milano
All’Erez crossing, l’ingresso nord controllato da Israele per entrare nella Striscia di Gaza (Palestina), l’odore di immondizia e il caldo fanno da cornice alle urla dei tassisti che cercano di accalappiarsi quelle poche persone che escono da Gaza: si tratta di persone malate, cooperanti o lavoratori palestinesi con permessi speciali. Le loro facce sono lunghe, scure, tese; hanno appena superato i controlli israeliani e salgono in fretta e furia su quei taxi sgangherati, sparendo tra la polvere dalla sabbia alzata dalle ruote delle macchine. Siamo arrivati il due giugno con un pullman da cui siamo scesi in 70. Settanta attivisti e attiviste, circensi, skater, musicisti, freelance, artist* provenienti da Milano, Roma, Bologna, Padova, Trieste e altre città italiane, arrivate fino a lì per entrare a Gaza e poter svolgere attività di scambio e due grandi eventi: un Forum delle Donne con le associazioni femminili locali e un Festival di Freestyle e scambio culturale con la popolazione. I tassisti ci hanno guardato incuriositi, “siete proprio strani” ha detto quello più anziano che si era avvicinato a chiederci chi eravamo. Una volta scesi dal pullman sapevamo già che l’attesa sarebbe stata lunga, quindi i circensi hanno tirato fuori le clave, le palline, i bastoni con i piattini girevoli e altri aggeggi, pronti a sfruttare il tempo dell’attesa per insegnare alla Carovana qualcosa sull’arte circense.
Abbiamo passato 6 ore al border nord di Gaza City, tra una
caduta e una performance riuscita, facendo rumore come dei bambini al parco che
sovrastano la quiete di un quartiere tranquillo.
I tassisti, palestinesi con cittadinanza israeliana, ci hanno acclamati fin
dalla prima performance. Alcuni di loro sono rimasti a filmare per ore
divertiti, altri hanno provato qualche gioco con la palla e uno ha provato a
camminare sul filo teso da un palo all’altro, cadendo platealmente per terra e
ridendo a crepapelle.
Alle 14 abbiamo provato a rifugiarci in 70 sotto una piccola tettoia in
plastica lunga meno di 10 metri, il sole aveva già scottato le prime facce e
non c’erano altre zone d’ombra. Seduti davanti al cancello che ci divideva da
Gaza, abbiamo aspettato ancora mentre i tassisti ci portavano acqua fredda,
gelati e patatine fritte; un piccolo assaggio dell’ospitalità palestinese.
Alla fine siamo entrati a Erez per iniziare i controlli, ma la fatica, la
burocrazia, le ingiustizie che dovevamo ancora affrontare per entrare a Gaza,
erano appena iniziate. A Erez due di noi non erano segnate nella lista di
persone con il permesso per entrare. Abbiamo quindi parlato con il
responsabile, dichiarando che non avremmo accettato di entrare tutti se anche
solo una persona fosse rimasta fuori. Dopo un’altra ora di attesa siamo
riusciti ad entrare tutte e tutti, con ancora le clave da circo in mano e
nell’altra i borsoni di materiale sportivo e artistico per le associazioni di
Gaza.
Superati i controlli, mentre ancora eravamo dentro Erez, c’era un cartello con
su scritto “Ingresso a Gaza”. È un cartello giallo vicino a una porta, sembra
che indichi l’accesso in una stanza riservata ai dipendenti di una banca.
Insieme siamo entrati in quella stanza, passando un corridoio pieno di
telecamere per arrivare ad un tornello di metallo dove, come ogni anno, i
borsoni di materiale fanno fatica a passare.
Dopo qualche insulto a quel maledetto tornello, siamo riusciti a passare tutti
e 70, entrando a Gaza.
Da un momento con l’altro la super tecnologia israeliana
sparisce, e ci troviamo di fronte a un paesaggio sabbioso, una cancellata con
il fil di ferro e due pulmini scassati da 20 posti in cui saliamo in 70. Abbastanza
velocemente passiamo il primo controllo dei passaporti, gestito dall’autorità
palestinese, e poi arriviamo al check point dall’autorità che governa la
Striscia di Gaza da 15 anni: Hamas. Rimaniamo bloccati lì per lo stesso tempo
in cui siamo stati fermi ai controlli israeliani, e qui siamo costretti in
sedie da cui non ci possiamo alzare. Ci portano acqua e cibo ma per protesta
decidiamo di non bere e mangiare, vogliamo sentire da loro la motivazione del
perché ci stanno trattenendo sulle nostre sedie. A un certo punto ci viene
comunicato che dobbiamo tornare indietro, e allora tutti si alzano e iniziano a
far caciara in italiano mentre chi di noi parla l’arabo gli parla in maniera
concitata e innervosita. Siamo a 12 ore di controlli, non abbiamo pranzato e
non abbiamo voluto cenare per protesta. E nonostante ce l’avessimo messa tutta
per svalicare in allegria questi maledetti confini, a un certo punto ha
prevalso la stanchezza e la rabbia. Settanta persone che urlano non sono un
bello spettacolo, i 20 dipendenti di Hamas si sono riuniti mentre il Presidente
del sindacato degli agricoltori, la nostra coordinatrice Meri Calvelli e altri
solidali da Gaza erano venuti a capire perché ancora non eravamo arrivati a
destinazione. Dopo un’altra ora, forti pressioni interne a Gaza e nostre, è
arrivato il permesso di entrare. Senza che ce lo fossimo detti prima, mentre
stavamo esultando manco fossimo allo stadio e avesse vinto il Milan, abbiamo
iniziato a cantare Bella Ciao tutti insieme, dall’inizio alla fine. Dal check
point di Hamas uscivano 70 voci di persone che hanno sciolto lo stress con il
canto di resistenza italiana contro il nazifascismo.
In poco tempo, poi, siamo saliti su un bus e siamo andati
verso Gaza City, dove ci aspettavano ancora svegli i dipendenti dell’hotel che
ci avrebbe ospitati e che avrebbe ospitato il Forum delle Donne. L’hotel Mahtaf
affaccia su una moschea e sul mare, al suo interno ha un museo con reperti
storici trovati a terra e nei fondali marini, come monete, drappi di vestiti
cuciti a mano o resti di imbarcazioni palestinesi. Espone anche abiti
palestinesi, tatreez, fatti a mano e di una bellezza clamorosa. Abbiamo quindi
dormito con il rumore del mare e l’eden del muezzin che chiamava alla preghiera
con voce talmente alta che entrava nei nostri sogni.
Il giorno dopo era venerdì, e a Gaza è un giorno di festa,
quindi ci siamo divisi tra chi andava a salutare gli amici, chi andava a vedere
le sedi dove si sarebbero svolte le attività e chi invece ha avuto bisogno di
più tempo per riprendersi dal viaggio del giorno prima. Tre border per entrare
in un luogo unico. Due milioni di persone tenute recluse sia fisicamente dai
confini terresti, aerei e marittimi (all’orizzonte del mare di Gaza si vede la
Marina militare israeliana), sia psicologicamente: perché pochissime persone
possono entrare nella Striscia di Gaza e poter approfondire il rapporto con la
popolazione, allacciare amicizie o collaborazioni. Da una parte c’è infatti la
situazione di isolamento causata dall’occupazione israeliana, dall’altra parte
invece c’è l’occupazione liberticida di Hamas, che da quando ha preso il potere
nel 2007 non ha mai voluto riconfermare la sua posizione con una elezione
democratica.
Il popolo di Gaza vive le privazioni dovute all’embargo,
l’assenza di luce in casa (eppure pagano due bollette), l’assenza totale di
acqua potabile, corrente e non. La crisi alimentare avanza, l’assenza di lavoro
pesa sia sulle tasche che sulla stabilità emotiva della famiglia, gli ospedali
sono da sempre al collasso.
La figura che più di tutte soffre questa doppia occupazione è la donna, e
questo è ciò che ci ha portati negli anni ad approfondire lo straordinario
lavoro svolto dalle associazioni femminili da Rafah a Khan Younis fino a
Jabalia. Un lavoro fatto di sostegno psicologico alle donne che subiscono
violenza domestica, che soffrono di stress post traumatico da bombardamenti
israeliani, che non hanno accesso al lavoro o all’educazione dei propri figli;
tutto ciò svolto con pochissimi fondi e difficoltà nel non avere un confronto
diretto con le associazioni internazionali. Perché i panni sporchi si lavano in
piazza.
Ed è con questo concetto che è iniziato il forum sabato 4
giugno, nella sala eventi dell’hotel Mahtaf, con la partecipazione di più di
200 donne, svariate associazioni e dieci associazioni organizzatrici (7 di Gaza
e tre italiane). Il forum è iniziato con i saluti di Meri Calvelli,
Presidentessa del centro italiano di scambio culturale Vittorio Arrigoni e
nostra coordinatrice. A seguire hanno parlato a turno associazioni italiane e
palestinesi: Casa Internazionale delle donne, Aisha, Mutuo Soccorso Milano, We
are not Numbers, Gaza Freestyle, Union of Palestine Women Commetees, Creative
Women Association, Palestinian Development women association, Democracy and
workers right center. Ha chiuso il giro Mariam Abu Dakka, storica compagna che
ha scritto un pezzo di storia della resistenza palestinese assieme ad altre
donne.
In un clima molto allegro e curioso, abbiamo pranzato poi
insieme mescolando le nostre storie, in un inglese forzato o perfetto o mimando
racconti con i gesti. Abbiamo chiuso la giornata con la scrittura in cartoncini
a forma di vestiti di messaggi anonimi con testimonianze di violenza. La
fiducia trasmessa in questa condivisione di storie forti ha aperto ciò che poi
è stato il forum nei due giorni successivi, e cioè un momento di scambio che ha
travolto tutte le partecipanti in maniera trasversale. Nei giorni a seguire ci
siamo divise in gruppi di discussione, laboratori e workshop e poi riunite in
una restituzione collettiva con presenza anche maschile.
Proveremo a raccontare che cosa ha significato per noi
italiane attraversare questo forum nella restituzione che faremo a Milano
domenica 19 giugno, dalle 18 al Lambretta. È certo che il forum si è concluso
con il Game of Privilige assieme agli uomini, causando un alto livello di
stupore, e che molte associazioni palestinesi si sono conosciute in questi tre
giorni di confronto. Il fatto che tutte loro debbano lavorare forsennatamente
contro il patriarcato e il tradizionalismo che avanza, non ha permesso che ci
fossero negli anni momenti di aggiornamento e condivisione tra associazioni
nate tutte insieme dopo la presa al potere di Hamas. Da internazionaliste,
siamo state un semplice filo rosso che ha legato noi a loro, e loro tra di
loro. Questo ha dato vita a uno scambio che ci ha rese tutte più compatte e
consapevoli del nostro ruolo nella società e della nostra posizione più o meno
svantaggiata nella scala dei privilegi. Con la chiusura del forum si è concluso
solo l’evento, perché nei giorni a venire abbiamo avuto modo di confrontarci
con le associazioni organizzatrici – e non – su come è stato percepito il forum
dalla propria organizzazione. Abbiamo scoperto che è stato seguito in diretta
dal programma ZMN di una radio a Gaza, e che tante altre donne avrebbero voluto
partecipare agli incontri.
Riporteremo poi le riflessioni durante la restituzione della Carovana che
faremo nei nostri spazi in Italia.
Mentre si svolgeva il forum, le attività del Gaza FREEstyle
sono andate avanti: il Gruppo Writing ha composto un murales di 100 metri con
su scritto FREE PALESTINE e il volto di Vittorio Arrigoni, e ha incontrato
diversi gruppi artistici con cui ha lavorato, come gli Shababek a Gaza City; Il
gruppo media ha raccolto video e foto testimonianze e racconti di storie
palestinesi, documentando anche passo per passo tutte le attività della
carovana: potrete vedere i prodotti durante le restituzioni in Italia. Il
Gruppo Musica ha lavorato con la scuola musicale Edward Said e con diversi
artisti gazawi, registrando brani con beat composti in Italia; il Gruppo Skate
ha incontrato le crew maschili e fammi milk da Nord a Sud della Striscia,
facendo anche lezioni private alle donne al Yarmouk Camp; infine il Gruppo
Circo ha svolto un lavoro straordinario con le scuole di circo di gas, unendole
tutte in un lavoro collettivo per arrivare poi al Festival finale della
Carovana Gaza Freestyle in cui abbiamo messo in campo tutte le arti di strada
approfondite nelle due settimane di scambio e allenamenti.
Così arriviamo al giorno della festa finale, dove al parco
di Gaza City centinaia di persone si sono riversate per guardare lo spettacolo
del Gaza Freestyle e salutare la Carovana di italiani in partenza. Un altro
momento spettacolare per cui non smetteremo mai di ringraziare il popolo di
Gaza, sempre caloroso con noi che arriviamo dall’altra parte del mondo per
portare la nostra solidarietà. Una solidarietà che va a loro, solo a loro,
uomini e donne palestinesi recluse a Gaza da questa doppia occupazione che
tenta di ucciderli doppiamente.
Dopo il Festival abbiamo salutato i numerosi amici, le sorelle, le associazioni
che ci hanno seguito, i/le compagne, e abbiamo riiniziato il percorso di uscita
da Gaza. Controlli, domande, perquisizioni, domande e solo domande. Cosa siete
andati a fare a Gaza?
Sono risposte che non riuscirebbero a capire. Siamo quindi uscite, in silenzio
perché stavamo lasciando a Gaza un pezzo di cuore, superato l’ultimo tornello
avevamo alle nostre spalle una barriera di metallo mortale e ipertecnologica
che divideva Gaza da noi, dal resto del mondo. Col cuore in gola siamo
ripartiti, con l’intenzione di tornare presto per continuare ad alimentare
questo scambio necessario per non lasciare la popolazione palestinese di Gaza
da sola.
All’aeroporto la Polizia di frontiera israeliana ha sequestrato due borsoni contenenti materiale utilizzato per i workshop a Gaza e materiale prodotto durante il Forum delle Donne. Al suo interno ci sono oggetti fatti a mano dalle associazioni femminili di Gaza, con ricami tipici palestinesi, e le testimonianze di violenza raccolte durante i workshop. Abbiamo inviato la richiesta di riavere immediatamente questo materiale delicato prodotto durante un incontro tra donne in Palestina. Vi terremo aggiornati.
Nassi LaRage per il Gaza Freestyle